La Storia

Il Territorio

Descrizione

Bompensiere è un comune in provincia di Caltanissetta ed attualmente conta poco più di 500 abitanti. Il suo territorio è inserito quasi al centro della Sicilia in un'area collinare posta ad un'altezza media sul livello del mare di 290 metri. Si appoggia su un versante del monte Marrobio allungandosi da sud-est a nord-ovest per una lunghezza di circa un chilometro.
È disposto su un’unica via principale sui cui lati si articolano le case, quasi uniformemente distribuite. Il punto più basso del centro abitato si trova a nord-ovest, ad una quota altimetrica di circa 270 metri sul livello del mare (Piana Giarre), il punto più alto si trova a sud-est ad una quota di circa 320 metri sul livello del mare (Contrada Portella). È attraversato dal fiume Gallo d'Oro che delimita il confine con il territorio di Mussomeli, dal torrente Nadure che delimita il confine con il territorio di Milena e dal torrente Salito che in parte delimita il territorio con quello del comune di Montedoro in parte attraversa quello di Bompensiere. Tutto il territorio ha un'estensione di 19,74 km2.

Una lapide restaurata e «murata» nell’atrio dell’unica Chiesa dedicata al Santissimo Crocifisso, pone la data di nascita di questo centro abitato ad opera di Don Ottavio Lanza Barresi nel 1631. Prima che si restaurasse la facciata della Chiesa la lapide, scolpita in un pezzo di calcare bianco, era apposta proprio sopra l’imponente portone d’ingresso in legno. Era stata demolita come ogni altro segno della memoria di quella Chiesa secentesca del cui ricordo rimane solo l’impianto piantale.
Si ha traccia dell’esistenza di un’altra chiesa «più piccola» nei registri dei «morti» del 1600/1700 della parrocchia, e di altri due nomi di dedicazione delle chiese, «Sant’Ottavio» (omaggio a Ottavio Lanza Barresi?) e «San Pietro». Un pregevole quadro di scuola «caravaggesca» del 1600, oggi al Museo Diocesano, rappresenta, appunto, il «pianto di San Pietro».
Non era la prima volta che questo piccolo centro veniva eufemisticamente «fondato», per come dimostra il documento di Licentia habitandi del 4 maggio 1557.
Labili e rari reperti archeologici ne dimostrano la presenza continua di popolazioni a partire dai romani, quando cominciava a svilupparsi il latifondo

Possiamo considerare questi aspetti come dei punti cardini della storia bompensierina. Le «fondazioni» e «rifondazioni» costituiscono verosimilmente il fulcro attorno al quale si è poi adagiata la cosiddetta vocazione agricola di questo centro. Vocazione che viene indicata oggi, negli scarni rapporti economici sullo stato dei comuni della provincia, come l’unica attività esistente.
Al di là di questi eventi «eclatanti» sembra esistere una situazione storica ed economica stantia, fatta di antico quotidiano sfruttamento o di facile moderno assistenzialismo, che non riesce e, forse, non riuscirà mai a decollare o a rendere questo luogo in una prospettiva efficace di sviluppo.
Eppure questa comunità continua caparbiamente a sopravvivere con un orgoglio campanilistico che si esalta con le difficoltà, ma che potrebbe nuocere nell’incedere dello sviluppo.
Attualmente conta 540 abitanti. Poco più di quanto ne contasse alla fine del seicento. Nel 1951 si è avuto un boom demografico con la presenza di oltre 1300 abitanti. Si è avuto anche un conseguente “boom” migratorio che ha svuotato progressivamente il paese!
Nella tradizione popolare questo centro è stato indicato con il nome «antico» di «Nadure», e la comunità ne veniva, e ne viene, indicata, con l’appellativo, a tratti paradossalmente dispregiativo, di «Nadurisi». In tutti i documenti conosciuti, e per quanto antichi nel tempo, mai la toponomastica che designava il centro abitato è stata indicata con quell’appellativo. Si trattava in realtà di una contrada il cui toponimo risulta scomparso o trasferito al corso d’acqua a valle dell’abitato ed affluente del Gallo D’Oro.
Giuseppe Giunta afferma che con la voce Nadure si intende l’ex feudo Nadure esteso principalmente attorno alla contrada Pizzo del territorio di Bompensiere. La voce Nador, che in arabo si pronuncia «nadur», vorrebbe significare un luogo generalmente strategico, dal quale la vista spazia fino ad orizzonti lontani. Un po’ stridente come affermazione se si considera che, nella zona indicata, l’altura di spicco non supera i 300 metri sul livello del mare!
Sul nomignolo Naduri esiste una curiosa favola («lu cuntu») sull’arrivo di un «principi e la muglieri» con una schiera di servi in un periodo di primavera e che, avendo trovato il posto pieno di fiori profumati, abbia esclamato «Ca c’è n’aduri!» e si pensa di costruire un paese. Qualcuno esclama che è «un bonu pinseri».
Da ciò la derivazione del termine «Naduri» e «Bompensiere».
Anche questo aspetto favolistico induce a pensare ad un luogo nel quale gli avvenimenti si susseguono in modo tradizionalmente tranquillo, senza la necessità di scomodare la storia.
Però di avvenimenti, cosiddetti cimenti e «storicamente» rilevanti, ne sono avvenuti.
Due in modo particolare.
Il primo si fa risalire al 1820, anno dei primi moti separatisti siciliani sorti in nome della libertà dal «giogo borbonico», con un assalto agli uffici comunali e la consequenziale intere distruzione dell’archivio.
Il secondo, riportato da Mulè Bartolo nel suo volume «La rivoluzione siciliana», avviene nel 1848 allorché un cosiddetto «sobillatore» tale Agostino Russo Saja, viene affrontato ed ucciso nella pubblica piazza dalla «guardie nazionale» che «lo fredda con una scarica di fucilate ottenendo il plauso generale dei cittadini». Questa la storia dalla parte del «potere», ma era realmente un «sobillatore»?
A parte questi episodi il mondo della tradizione resiste sia pur tra mille difficoltà dovute anche alla cancellazione della memoria operata dall’incedere del «moderno» e con la scomparsa dei testimoni che non sono riusciti a trasferirla alle nuove generazioni. In questo contesto anche ogni scomparsa di anziani porta il rammarico di non aver potuto intervistare i loro ricordi!
La tradizione sta scomparendo anche nelle sue manifestazioni esteriori che, partendo dalla necessità di aggregazione, discendono e si compendiano nella povertà dei mezzi e nella cultura della fede cristiana.
Scomparsa la tradizione del «Ligatu», una sorta di atto di affidamento di un bene ad un santo. Scomparsa la festa di Sant’Antonio Abate del 17 gennaio, con l’immolazione del maiale allevato per tutto l’anno dalla popolazione.
Lo sposalizio di San Giuseppe il 23 gennaio con distribuzione di ceci cotti, mandorle e vino. La festa di San Paolo, il 25 gennaio con la preparazione dei «cavati».
Resiste la festa di San Giuseppe, oggi celebrata la domenica successiva al 19 marzo, con la tradizionale «tavolata» della Sacra Famiglia, con l’immancabile presenza dell’asinello. Resiste anche la tradizione pasquale, come in tutti Comuni della Sicilia. Anche la festa del Patrono, il SS. Crocifisso, nella quarta domenica di settembre.
Viene celebrata, da diversi anni dell’«epoca moderna», la festa dell’Assunta, il 15 di agosto, una festività che si discosta dalle antiche origini della tradizione bompensierina. Anche questo è un segno dei tempi.
Le feste popolari si legano o li si vuole legare alla storia di una comunità o forse è un modo per conservare caparbiamente quella “memoria”, oppure li si vuole considerare come l’ultimo legame con la storia per un’occasione di sviluppo. In uno con il tentativo di rivalutazione del proprio territorio.


LA MINIERA MANGIABUE

Costituisce lo sfruttamento di una singolare miniera di un sale molto particolare, denominato «glauberite» o sale mirabile di Glauber, sfruttato, nei primi anni del 1900, da una società di origine inglese che, non a caso, si chiamò Glauberia. Si tratta di un sale molto solubile a composizione magnesiaca.
La località della miniera è tutt’oggi indicata con il nome di «Mangiammò», «tradotto» nella toponomastica topografica della lingua italiana in «Mangiabue», un toponimo che, secondo Giuseppe Giunta nel suo volume «Bompensiere - storia di un comune di Sicilia» bisogna derivarne l’etimo dalla volgarizzazione dell’arabo «Mangiamm» e dal nome proprio berbero «Moh» o «Moha», che lo assurge a significato di «Miniera di Mohamed».
A prescindere dei tentativi di interpretazione derivazionale della toponomastica è da pensare che fosse sfruttata già nel periodo attribuibile alla civiltà romana, non altro per la presenza diffusa di cocci di ceramica nell’area di impianto ed il rinvenimento di un pezzo di colonna dorica.
Gli Arabi verosimilmente ne hanno continuato lo sfruttamento e lo si evince non solo per l’ipotesi toponomastica di Giunta, ma anche per la presenza, anch’essa diffusa, di segni nel territorio.
E a tutto questo dobbiamo aggiungere che il Mottura, unanimemente considerato lo scopritore dell’economia mineraria della Provincia di Caltanissetta, già nel 1870 in un suo studio descrive di aver trovato l’impianto della miniera di Mangiabue «da parecchio tempo in un totale stato di abbandono».
La coltivazione salina avveniva mediante dissoluzione per circolazione di acqua. Tale estrazione è iniziata nuovamente nei primi del 1900 ed aveva principalmente lo scopo di estrarre sali solfato-magnesiaci che per il loro elevato grado di solubilità erano facilmente estraibili anche se frammisti ad altro sale. Le attività estrattive già condotte con criteri industriali furono arrestate nel 1912-1913 e non sono mai più state riprese.
La estrazione dei sali avveniva per soluzione del minerale in posto con il seguente impianto:
a) una galleria sub-orizzontale di base che si immetteva entro il corpo salino con muratura di "strozzo" nel sale presso le argille.
b) Una serie di fori di sonda ravvicinati, tubati in corrispondenza dei terreni di tetto, che giungevano alla testa della galleria.
c) Impianti di riscaldamento dell'acqua.
d) Vasche di decantazione e raffreddamento.
L’acqua calda veniva pompata nei fori di sonda dall'esterno e si immetteva nel corpo salino, sciogliendo sali fino alla sua saturazione. La salamoia così generatasi usciva attraverso la strozzatura della galleria di base in quantità regolabile da saracinesche e paratoie in legno impregnato d'olio in modo da resistere alla penetrazione salina. Una tubatura e canalizzazioni portavano la salamoia alle vasche esterne fatte in muratura e rivestite di malta cementizia bituminata. Al contatto con l'atmosfera la salamoia si raffreddava e si sedimentavano strati salini che avevano mediamente le seguenti composizioni:
1° strato: (in basso) - 20-30 cm di fanghi argillosi con circa il 20-25% di solfati misti e cloruri di Na, K ed Mg;
2° strato: (dal basso) 15-20 cm di solfati misti di Na, Mg e K, con prevalenza del solfato di magnesio;
3° strato: 30-40 cm di cloruri misti con bassa percentuale di solfati;
4° strato: salgemma impuro.
Non appena si cominciavano a sedimentare i cloruri a netta prevalenza sodica, si ripompavano le acque di salamoia nei riscaldatori per essere di nuovo reinserite nel ciclo.
Le condutture di adduzione e le intercapedini delle caldaie di riscaldamento erano di tipo metallico (ferro e ghisa) per cui si alteravano facilmente e ne richiedevano la sostituzione. Forse è stato uno dei fattori determinanti l'abbandono dell'attività.
I sali depositati nelle vasche venivano raccolti tenendo manualmente separati, possibilmente, il re 3" strato i cui sali erano utilizzati in stabilimenti posti altrove (in Inghilterra), mentre le componenti del 4° strato ed i fanghi di base erano riversati nei fossi di scarico a valle dell'impianto.
Fino a pochi anni or sono erano ben visibili le strutture murarie ed i ruderi dell'ex impianto, cartografate alla scala 1:25.000 con la denominazione di "Mangiabue".

(dal Mezzadri - La Serie gessoso-solfifera della Sicilia ed altre memorie geo-minerarie – Roberto De Nicola Editore, 1989)


LA CONFRATERNITA DEL SANTISSIMO SACRAMENTO

È una delle tante comunità di origine medievale che sono state “ufficializzate” con “licentia populandi” nel XVI secolo e, da sempre, ha raggruppato contadini e piccoli proprietari terrieri. Nel suo territorio si registrano labili reperti del periodo romano, susseguentemente del periodo arabo, in un prosieguo storico, affidato alla successiva rimembranza tradizionale, della vita contadina e di comunità. In questo contesto nasce la Confraternita le cui origini risalirebbero al secolo XVII.
Nei riti della Settimana Santa, del Venerdì Santo e nei funerali dei confrati e delle consorelle, le insegne del Sodalizio portano le indicazioni del lutto. La Settimana Santa è occasione di rinnovo tradizionale di riti e richiami alla storia e alla cultura che risalgono al XVII secolo e a quelli a venire.
L’identità della Confraternita si realizza pienamente nello spirito di solidarietà. La carità come testimonianza e donazione al fratello che sperimenta la sofferenza, sotto qualsiasi forma, rappresenta la scelta fondamentale del Sodalizio. A tal fine, esso suscita e favorisce il volontariato nel proprio interno ed in collaborazione con le strutture operanti nel territorio favorendo, ove necessario e nell’ambito delle proprie possibilità, le iniziative mirate ad alleviare antiche e nuove povertà materiali e morali.
La Confraternita, per gli importanti contenuti di cui è erede e custode in materia di "storia patria", contribuisce al recupero, alla conservazione e alla maggiore conoscenza e fruizione dei Beni culturali ed ambientali di Bompensiere, mediante tutte le iniziative che il Consiglio Direttivo riterrà del caso.
Tali riti e richiami tradizionali hanno inizio con la Domenica delle Palme con una tradizionale processione dei Confrati in abito solenne costituito da:

  1. camice bianco con cingolo;
  2. mantella;
  3. visiera bianca (anticamente detta "buffa").

La Confraternita procede, di norma, in forma solenne con la bandiera, i due mazzieri, i quattro "signiferi" anteriori, il Crocifero, la Sedia Negli altri casi decide il Superiore o chi ne fa le veci. Voce ufficiale del Sodalizio è la "Campana dei fratelli" che, collocata fin dall’antichità nel Campanile della Chiesa Madre, suona:

  1. per annunziare le liturgie a cui partecipa la Confraternita;
  2. per comunicare la morte di un confrate o di una consorella e invitare alla preghiera di suffragio;
  3. per convocare i confrati in assemblea;
  4. per ogni altra motivazione, a discrezione del Superiore.

Il rito pubblico della Domenica delle Palme inizia già dal sabato precedente con la benedizione, da parte dell’assistente parrocchiale, di speciali palme confezionate e distribuite alla popolazione presente. Il rito, con la distribuzione delle coreografiche palme appositamente preparate, continua e si sviluppa per un paio di chilometri, in forma solenne e in processione, dalla speciale “Cappella” votiva dedicata al SS. Sacramento all’ingresso del paese fino alla Chiesa Madre dedicata al SS. Crocifisso. Tale rito continua anche nel pomeriggio della Domenica delle Palme.
Le manifestazioni continuano nei riti del Giovedì Santo. Si celebrano prevalentemente nella Chiesa Madre con la predisposizione tradizionali di “pani scanati e zuccherati”, benedetti durante la Santa Messa e poi distribuiti a tutti i fedeli presenti. Si celebra, quindi la “Cena Domini” con 12 Confrati in abito tradizionale completo che rappresentano i 12 Apostoli e la “lavanda dei piedi”.
Il “Rito” continua” il Venerdì Santo. Processione tradizionale al mattino entro le ore 11,00. Confrati in abito completo. “Vara” del Cristo con la Croce e simulacro dell’Addolorata al seguito. Banda musicale e canti caratteristici, in versi poetici siciliani e “cantata”, della Settimana Santa. Liturgie dell’Adorazione della Croce per tutta la giornata. Dalle ore 21,00 in poi deposizione della Croce con riproposizione della processione tradizionale con in Confrati in abito con saio bianco coscritto in lutto, banda musicale e Via Crucis per tutto il paese.
I riti, in forma prettamente religiosa, si concluderanno con la “veglia” pasquale del sabato notte e Pasqua di Resurrezione.

Ultimo aggiornamento: 26/03/2024, 19:04

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